Oggi ho incontrato una grande donna: Letizia Battaglia. In un’ottima mostra allestita al Maxxi e curata da Paolo Falcone, Margherita Guccione e Bartolomeo Pietromarchi.
Mi accoglie all’ingresso un’ampia parete con una mappa di Palermo. Intorno ci sono le foto di Letizia Battaglia numerate e collegate alle località in cui sono state scattate. Le immagini, come in un collage, circondano la pianta della città restituendo scorci e ritagli d’intimità alle linee geometriche della mappa.
Penso a come ogni vita sia intrecciata a un luogo, e come forse ognuno di noi potrebbe raccontarlo attraverso le immagini, e come queste immagini immancabilmente finirebbero per raccontare un’epoca attraverso momenti di vita pubblica e privata. Ma quello di Letizia Battaglia è un lavoro mirato, non un random, me lo ricorda la sua voce che mi arriva addosso come uno schiaffo mentre mi stavo accomodando nel mio sollazzo fotografico: “Tanta fatica dietro al mestiere del fotoreporter come lo vivevamo noi (…) foto concitate dove non si sceglie niente. Si fotografa quel che si può”.


Le sue parole continuano a guidarmi e mi portano a fermarmi e lasciarmi catturare dal video dove la voce che mi stava accompagnando ora si accompagna a un volto. Si, perché un fotografo racconta il mondo attraverso i volti degli altri, ma un volto ce l’ha anche lui. E questo è il volto di una donna con volontà ferrea e consapevolezza chiara, con una missione e un obiettivo. L’obiettivo diventa sguardo, taglio, racconto. Entro così in contatto con le espressioni del suo viso e il suo modo di parlare e di sentire: la sua storia che si intreccia con quella dei suoi scatti.
Il percorso della mostra mi porta a ritrovare le stesse immagini della mappa iniziale, nel video e nelle stampe dell’istallazione Antologia.


Procedendo nella mostra alcune foto mi diventano sempre più familiari, raccontano una storia che pian piano si va svelando. Nel ritrovarle sento ogni volta un’emozione più forte. Vivo e sento lo scoraggiamento di quella madre che passa le giornate a letto con i suoi figli, perché non ha cibo, né acqua o elettricità nella casa e leggo la data: 1978, anno in cui sono nata… un passato di cui in qualche modo sono parte…
Penso a quante donne oggi stanno ancora così, e forse mentre io sto in piedi, vestita e truccata, a interrogarmi sul loro stato, loro restano sdraiate nel letto, impotenti, alle 11.30 di un mercoledì mattina. Sento come il tempo storico dei grandi eventi corra, a livello nazionale e internazionale. Le carte, come in un grande mazzo, continuano a mischiarsi, i giochi di potere cambiano gli attori mantenendo le stesse regole. E poi sento lo scorrere monotono di un’altra forma di tempo, che non so definire senza cadere in stereotipi obsoleti, un tempo dove tutto rallenta e sembra mantenersi uguale, inalterato nelle stesse inutili solitudini, negli stessi dolori, nelle stesse sopraffazioni.

L’allestimento dell’installazione Anthologia mi coinvolge e mi tira dentro un gioco d’immagini fatto di rimandi e muti collegamenti ipertestuali.
Ogni foto sulla quale il mio sguardo si sofferma in primo piano, dialoga con quelle che s’intravedono sullo sfondo trovando in esse conferma, dettaglio, contesto. Lo sguardo si sofferma sul particolare e sull’insieme al tempo stesso, che percepisco come flusso storico, racconto di un’epoca, fatta da innumerevoli vite ricche di dettagli, inutili e indispensabili al tempo stesso.


Sono 120 fotografie che raccontano la Palermo degli anni ’70 e ’80 con i suoi quartieri popolari, i volti sporchi di bambini e di donne, ma anche i ritratti di famiglie borghesi e mondanità della città ricca. Ritroviamo la storia di quegli anni con i tanti, troppi morti uccisi dalla mafia, con i volti più noti dei politici, con gli intellettuali e le forze dell’ordine.
Emerge il gioco delle alte sfere del potere, tirato a lucido e costruito su superficiali apparenze pronte a sgretolarsi. Apparenze e buoni costumi che fanno da contrasto alla miseria, al dolore vero, alla mancanza di speranza.
Alla fine sento che a me personalmente, non è di Palermo che ha parlato Letizia Battaglia, ma dell’essere donna, ieri come oggi.
Il mio sguardo si sofferma sui volti trasformati dalla sofferenza, sugli sguardi persi di chi non trova appigli per la speranza. Riconosco nelle pieghe dei visi, nelle rughe tra le sopraccia, nelle lacrime che non si possono trattenere, un dolore viscerale, antico e presente, vivo oltre la superfice, incurante di ogni maschera, mio e di tante donne. Nel silenzio questa sofferenza strilla, mi avvolge e mi afferra l’anima.

Questo credo sia il più alto motivo dell’essere reporter: dare voce attraverso le immagini a chi voce altrimenti non avrebbe, e permettere a questa voce di urlare oltre la superfice bidimensionale catturando l’osservatore e portandolo a riconoscere nelle proprie viscere l’indiscusso paradigma umano, l’universale sentire che a tutti appartine e che comunuqe, pur quando negato, ripulito o riscritto, vive in ognuno di noi.